sabato 24 ottobre 2015

La Via dell'Estasi - Romanzo

Parte I 

Intro

«Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti voi ben sapete che come un ladro di notte, così verrà il giorno del Signore»
(1 Ts 5, 1-2)

Ciò che qui vi annuncio è avvolto nel fulgore del nuovo. Mancano la parola e il concetto.
Intendo indicare l’avvento di ciò cui ogni nostro sospiro da sempre si è votato, di ciò che abbiamo lungamente invocato, ricercato sino allo sfinimento e infinite volte dimenticato; di ciò che rimane nondimeno sottratto al calcolo dell’attesa e che giunge nella repentinità imprevedibile di un istante: fugace, venturo, passato e ancora prossimo a venire.
Io faccio cenno in direzione dell’avvento.

La coscienza è quel peculiare aspetto dell’essere che sinora l’intera impresa conoscitiva della nostra civiltà, nella parabola storica della sua genesi ed evoluzione, ha del tutto tralasciato. L’essere nel suo carattere di esser sempre e anche un esser-cosciente è quanto si è indefinitamente sottratto ai mezzi analitici e descrittivi delle indagini scientifiche e filosofiche.
I fenomeni intesi come contenuto dell’esperienza cosciente, sono certamente stati oggetto precipuo delle interminabili ricerche che nei secoli passati e sino ad oggi hanno sottoposto al vaglio le differenti qualità di ciò si offre alla percezione.
Anche la letteratura nel suo stato attuale non fa che descrivere fenomeni, fatti, stati di cose. Uno scritto in forma diaristica così come un resoconto psicanalitico, per quanto incentrati sulla descrizione di pensieri, emozioni, fantasie e ogni altro possibile fenomeno interiore si pongono in questo senso sullo stesso piano di un trattato di fisica o di biologia.
L’esposizione per mezzo di strumenti matematici dell’orbita di un corpo celeste, rimane infatti tanto soggettiva quanto una confessione autobiografica. Il colore, l’estensione, il movimento, il sapore e ogni possibile connotazione di quanto è percepito, restano pur sempre fenomeni, relegati entro la prospettiva di un osservatore, e il fatto che essi siano attestati nel convergere delle prospettive di più osservatori, non restituisce tuttavia alcuna verità oggettiva a quanto esposto.
Oggettivamente vera, in quanto ciò che permane invariato, sempre identico a se stesso e raccolto in una semplicità assoluta, pur attraverso infinite peripezie e sommovimenti, è solo la coscienza in quanto tale.
Tuttavia la coscienza non è un contenuto che si possa descrivere: noi non conosciamo mai la coscienza, noi la siamo. Un certo stato di coscienza e nello specifico quello stato proprio della coscienza che giunge ad essere pienamente avvertita di se stessa, non può essere conosciuto nel modo di un oggetto, distinto da noi: può solo essere esperito in prima persona, in ciò che proprio noi in questo stesso istante siamo.
Così questo romanzo non può descrivere l’istante cruciale, lo squarcio di consapevolezza che rappresenta il compimento dei nostri sforzi, sempre a venire, sempre di nuovo sopraggiungente: esso può solamente creare un’allusione, suggerire un sapore, una nota di fondo, affinché il viandante ne faccia propria l’indicazione e si volga a percorrere egli stesso il cammino.


Strato dopo strato l’essere attraversa le epoche; quel mondo che ora appare e si manifesta nella tua esperienza cosciente è sempre stato qui, eternamente qui. Ecco perché, in una stessa frazione d'eternità, tu hai abbracciato le epoche. La tua storia, che non ha né fine, né inizio, è la storia del mondo; dai moti irrequieti degli organismi unicellulari, alle esplosioni termonucleari che increspano la superficie del sole, sprigionando energia, tutto ciò è pur sempre il risvolto delle fluttuazioni e dell’incedere della coscienza verso se stessa. Poiché coscienza è andata e ritorno, processione e ritorno a sé come nel donum dello Spirito in cui il Padre eternamente si dispiega nel Figlio e la coscienza si estroflette nella forma che da essa procede e in cui essa si conosce in un movimento inquieto e amorevole che in eterno procede dall’una all’altra, sempre di nuovo facendo ritorno.
Così in ogni epoca sono sempre stato io, e ho percorso i gradini. Sono stato io stesso l’eterno momento di questa profusione d’amore, che diviene caduta, che diviene anelito alla redenzione.
Nel deserto del basso Egitto, ho praticato l’ascesi al fianco dei padri del monachesimo dei deserti.
Gradualmente ho scisso la realtà irrequieta del corpo materiale dall’afflato di elevazione dello spirito. Meditavo. Lottavo contro il principe del mondo, l’inerzia che trascina sempre di nuovo verso terra. Al termine dell’ennesimo giorno di digiuno, sedevo in una grotta di roccia porosa, tra le insenature dei monti rocciosi levigati da venti millenari; mi alzai a fatica sulle gambe doloranti: dall’apertura potevo scorgere il cielo ormai scurito della notte e solo in lontananza il chiarore della luna e delle stelle, non offuscati da nuvole, creavano il presagio di un orizzonte di luce, oltre la notte, oltre lo spazio sconfinato della distesa sabbiosa. «Anche tu, Maestro» dissi con un filo di voce «anche tu Maestro hai veduto questo?» Immaginai il Signore, assiso anch’egli tra le asperità del deserto a scrutare accigliato un orizzonte simile a questo, in attesa paziente delle tentazioni, per provare la sua volontà contro l’attrito delle forze del mondo, subito prima di incamminarsi in questo stesso mondo e dare inizio alla sua opera di Redenzione. Ma un attimo prima di perdere i sensi, compresi che l’inaudito era ancora da venire, e intuii la possibilità ultima del ritorno: vidi, in un istante, il volto di Lei. Il volto per dimenticare il quale tutti i miei sforzi si erano spesi.


Nel secondo decennio del ventunesimo secolo, i tempi furono maturi. Ogni singolo passo delle Scritture è teso verso l’evento che cerco qui di annunciare: quando Dio promise a Mosé, sul monte Oreb, la terra ove “scorrono latte e miele” è a ciò che alludeva; i profeti Isaia ed Ezechiele con parole di fuoco descrissero l’approssimarsi di una Nuova Alleanza e Gesù di Nazareth, nella cui persona si compiva lo sposalizio tra l’umano ed il divino disse che il Regno era infine giunto e che tuttavia gli uomini ne avrebbero guadagnato l’ingresso solo a seguito di una vigile e perseverante preparazione. Le porte che conducono al Regno sono infatti anguste, esse dapprima, recano il volto austero del Giudizio, ove la potenza divina getterà nel fuoco la zizzania, per lasciare posto alle piante che danno frutto.
In quel tempo vivevo a Padova e lavoravo come barman in un locale situato in prossimità della tangenziale, prima del vecchio cimitero, entro il cui perimetro delimitato da un muro in cemento e da cui fanno capolino le fronde cadenti dei platani, si dispiega la moltitudine di lapidi squadrate a custodia dei corpi dei fratelli non più vivi, non ancora risorti. La sera, riempivo di ghiaccio i lunghi bicchieri da cocktail, pestavo foglie di menta per i Mojito, o versavo sciroppo rossastro ammirandone la tinta suggestiva attraverso le curve del vetro; il televisore al centro dell’ampia sala ingigantita da un gioco di colonne e pareti a specchio, su cui si rifrangeva la luce giallo accesa di lampadari dalla forma appuntita, suggeriva attraverso la voce monotona di un giornalista l’imminenza di una catastrofe. L’economia, e le strutture istituzionali vacillavano; dal medio-oriente giungeva la minaccia del fanatismo, laddove l’antica legge dell’intransigenza e della mutilazione sembrava riaffacciarsi con prepotenza; l’occidente era in pericolo. Tuttavia all’orario dell’aperitivo la sala era gremita di ragazzi e ragazze intenzionati a divertirsi. Era il mese di luglio: le ragazze indossavano abiti leggeri di cotone, portavano i capelli lisci tenuti raccolti dietro le orecchie con gli occhiali da sole, e dicevo loro di sì con un cenno ieratico della testa, sempre uguale, come in un liturgia, mentre sparavo il seltz nel bicchiere con quel suono spumeggiante che caratterizzava il rituale della fattura di ogni Spritz. Aperol, Camapri. Rosso scuro e arancio nel bicchiere che le ragazze in orario d’aperitivo stringevano tra le mani. Il loro profilo slanciato, l’abito scuro all’altezza delle ginocchia, si rifrangeva sulla parete a specchio. 
Fu in una di quelle sere, mentre già da due ore preparavo cocktail badando di prestare attenzione al mio respiro, che vidi Lei.
Prendevo una bottiglia di Blu Curaçao e intanto mi assicuravo di inspirare consapevolmente, non potevo permettere che le funzioni vitali del mio corpo sfociassero nell’inconsapevolezza e nella meccanicità. Mentre fissavo negli occhi un ragazzo robusto in camicia bianca, che si accostava al bancone domandando con un sorriso tirato «tre rum e pera, per favore», sentivo l’aria che attraversava le mie narici; fingendo di esaminare lo scontrino che questi mi porgeva potevo apprezzare il cambiamento di temperatura che questa aveva subito: nell’espirazione l’aria era sospinta all’esterno e nel momento in cui passava per il naso era sensibilmente più calda. Nel momento in cui disposi i tre piccoli bicchieri pieni di succo giallo pastello, accanto ai loro gemelli più scuri, precedentemente riempiti di Avana Club, la vidi venirmi incontro. Il ragazzo con la camicia nera fece cenno a due suoi amici di avvicinarsi per prendere i bicchieri; io mi scostai istintivamente verso destra perché le persone che si andavano accalcando attorno al bancone non la nascondessero alla mia vista. Il mio sguardo incontrò quello di lei e in quel momento seppi: fu qualcosa come un ricordo e insieme una preveggenza; un sentire, un intuire. Rividi il chiarore della luna che colorava il cielo vasto e terso della notte nel deserto. Compresi in un istante un presentimento di secoli: la ragazza che veniva nella mia direzione indossava un abito azzurro, lungo fino ai piedi, che le lasciava scoperte le spalle; sorrideva, e il bianco dei suoi occhi scuri rievocava la sfericità della luna che vidi millenni addietro. Capelli neri e lisci, e i tratti del viso che subito mi riportarono le fattezze mediorientali di fratelli e sorelle che avevo ben conosciuto. Portai la mia attenzione al diaframma, sentivo la pancia gonfiarsi e sgonfiarsi al ritmo del respiro che andava accelerando. Quando fu esattamente di fronte a me iniziai a percepire un senso di oppressione al centro del petto; con la bocca inscenò un mezzo sorriso di finto imbarazzo ma nel frattempo continuava a fissarmi negli occhi, le pupille nere e vuote che testimoniavano un’assenza antica, dai trascorsi millenari.
«Ehm» disse continuando a comportarsi come fosse in imbarazzo «…vorrei uno Spritz per favore…» nel frattempo i suoi occhi comunicavano una fermezza granitica che quasi mi spaventava. Nonostante stessi cercando di essere il più possibile presente ai miei gesti e ai miei movimenti, le parole mi si incepparono in bocca. “D-dovresti prima fare lo scontrino…”  dissi, provando una senso di contrizione in tutto il mio essere, come sentissi di aver mancato di rispetto a qualcosa di sacro, opponendo alla richiesta di lei quel triviale dettaglio pratico.
Dalle casse collocate negli angoli della sala, si diffondevano nell’ambiente le note digitali del brano di elettronica quando notai, avvertendo come una ferita alla bocca dello stomaco, un austero disappunto nei suoi occhi antichi.
A parte gli occhi, il volto continuava ad assumere espressioni ordinarie, sembrava davvero sentirsi impacciata per aver chiesto con leggerezza da bere, senza prima passare per la cassa. «Ok, scusa…» disse. La sua voce aveva la frequenza squillante e leggermente cantilenata di una ragazza veneta che parla con tono cortese, ma era nel contempo attraversata da una vibrazione scura e come più densa, che dietro quel tono ordinario faceva intuire un’intenzione che potrei definire come autorevole. Accompagnata dal canto digitale del brano, mi fissò ancora un secondo: per un attimo ebbi inspiegabilmente paura, poi il blocco che percepivo al centro del petto sembrò sciogliersi; di colpo il suo sguardo da severo che era parve irradiare qualcosa come un’emanazione amorevole e di dolcezza infinita. Mi parve di vedere qualcosa come un alone dorato attorniare la sua persona, e mentre ogni emozione di timore e afflizione si scioglieva in me in un calore infinito che pervadeva tutti gli arti del mio corpo sentii che i miei occhi si bagnavano di gioia. Poi lei distolse lo sguardo, si girò e si incamminò sparendo con passo spedito in mezzo alla gente. Non riuscii a dire nulla, a fare nulla per alcuni secondi. Tutto quanto attorno a me era d’un tratto così reale, così… presente.